Questa storia continua a ribollirmi nella mente, quindi bisogna che continui...spero vi piaccia!
CAPITOLO 2 – I signori Takebata-Ecco un altro regalino da parte di qualche donnaccia!
Così fu accolta la sua venuta nel mondo. Quando la signora Takebata aprì la porta la mattina dopo, e si ritrovò davanti il canestro con dentro la bimba, non mostrò nessuna sorpresa, ma si limitò a prendere su il cesto e a portarlo dentro casa per mostrarlo al marito.
I signori Takebata cominciarono ad esaminare minuziosamente la bambina, nella speranza che avesse addosso del denaro, ma la piccina aveva solo con sé quel pezzetto di stoffa.
-E questo cos’è?
-C’è scritto “Chizu”. Sarà il suo nome.
-Che lo sia o non lo sia, chiamiamola così. In qualche modo si dovrà pur chiamare, questa mocciosa.
La casa dove Chizu era capitata non era certo un ricovero di filantropi. I signori Takebata erano una coppia di tagliaborse, che allevava orfanelli per farne dei ladri alle proprie dipendenze. E anche dire che li allevassero era far loro un complimento. In realtà non facevano che dare ai bimbi un tetto sopra la testa, ammassandoli a decine nella stalla adiacente la casa. Quanto al vitto, ciascuno dei bambini doveva arrangiarsi con quello che riusciva a rubare durante il giorno. Chi non rubava, non mangiava: questa era la regola.
-E’ piuttosto carina – considerò il signor Takebata, guardando la pelle di porcellana, i capelli nerissimi e gli occhi color smeraldo della piccola Chizu, che in quel momento lo fissavano tondi e attoniti. –Magari è la figlia illegittima di qualche dama. Forse un giorno ne ricaveremo qualcosa.
-Certo – convenne la moglie. – Ma, dama o non dama, non la foraggeremo certo a latte e miele, aspettando che cresca e diventi merce di valore. Non aveva nemmeno un centesimo addosso, quindi ha già un debito con noi. Domani stesso cominceremo a farla lavorare.
E, chiamata una delle bambine più grandicelle, glie la mise in braccio.
-Ruriko – fece la signora Takebata rivolta alla bambina. – Questa è Chizu. Da domani lavorerà con te. Dovrai occuparti anche del suo cibo, oltre che del tuo, e la curerai finchè non sarà in grado di camminare da sola.
Ruriko fece un inchino furtivo, e presa la bimba dalle mani della donna, scappò portandosela nella stalla. Ruriko era una bambina di circa dieci anni, cenciosa ed emaciata quanto lo si può essere. La sua unica bellezza erano gli occhi, insolitamente grandi e dolci, di uno splendido color nocciola screziato di venature dorate. Con la sua aria svagata, riusciva a distrarre i passanti raccontando storie vere o inventate, in modo così vivo che chiunque si fermava ad ascoltarla. E mentre gli ingenui prestavano attenzione alla piccola cantastorie, gli altri bambini dei Takebata si davano da fare sfilando borse, portafogli e foulard di seta, sganciando bracciali, collane e catene di orologi. Ruriko in questo modo era diventata la principale ricchezza della casa. Con quella bella bimba in braccio, pensavano i Takebata, certo le storie di Ruriko sarebbero diventate ancora più interessanti. E più redditizie.
Al suo secondo giorno di vita, quindi, la piccola Chizu cominciò a lavorare. Ruriko se la portava in giro nelle fiere, nei mercati, alle feste di piazza, fuori dai teatri: ovunque la gente brulicasse volentieri con l’intento di divertirsi e perdere tempo. In questi posti la bambina abbindolava i passanti, con in braccio quella piccina dagli occhi verdi, che spacciava per la sua sorellina e che con la sua bellezza attirava ancora di più la simpatia delle persone. Grazie a Ruriko e Chizu, la banda di ladruncoli dei Takebata potè racimolare considerevoli bottini ogni giorno. Quanto alle due bambine, esse mangiavano con quelle poche monetine che i passanti regalavano loro in cambio delle storie che ascoltavano.
Ruriko, che non aveva mai posseduto giocattoli, era entusiasta di Chizu, che trattava come la sua bambola viva. La cambiava, la cullava per farla addormentare e per farla smettere di piangere, e trovava naturale cercare il cibo anche per lei. Del resto, mendicare con la bimba in braccio era più semplice, perché le venditrici di pane o caramelle si facevano incantare facilmente dagli occhioni di Chizu.
Passavano tutta la giornata a vagare per i rutilanti quartieri della città, dove la più nera miseria si mescolava alle più varie forme d’arte, dove il mendicante e la geisha camminavano a pochi passi l’uno dall’altra, dove templi e locali equivoci condividevano la stessa strada. La neonata assorbiva quel clima inconsciamente, ancora avvolta com’era nelle nebbie dell’incoscienza, e senza rendersene conto cresceva giorno dopo giorno alla musica della voce di Ruriko e delle sue storie.
Tutt’altra atmosfera attendeva le due bambine al ritorno nella stalla dei Takebata. Botte e frustate continue erano le sole carezze da parte dei due coniugi, risse per accaparrarsi il pagliericcio più asciutto o un avanzo di pane erano i soli contatti che avevano con gli altri bambini. In quella casa non si diceva nessuna parola che non fosse un insulto gridato o una maligna imprecazione. Per questo motivo Ruriko, che fuori casa non faceva che raccontare storie meravigliose, a casa Takebata non pronunciava parola. E, crescendo, Chizu fece come lei.
CAPITOLO 3 – Un’artistaA quattro anni, Chizu non sapeva dire che poche parole stentate. Appena fu in grado di stare in piedi da sola, le furono assegnate le prime incombenze: pulire i pavimenti, prendere l’acqua dal pozzo, ripiegare i foulard di seta rubati, che poi i Takebata rivendevano sul mercato nero. Non conosceva la differenza tra bene e male, e non aveva mai tentato di scappare, come nessuno dei bambini dei Takebata: per loro, semplicemente, quella era la vita, e non pensavano nemmeno lontanamente che potesse esisterne un’altra.
Finite le faccende di casa, Ruriko prendeva Chizu per mano e insieme trotterellavano fuori, in cerca di persone da ingannare con le loro storie, ma, soprattutto, in cerca dei bei colori vivi della città. Con Ruriko, Chizu non stava male: da lei aveva imparato le sole parole che conoscesse, ed era lei l’unica persona con cui comunicasse senza ricevere botte. Stava accanto a lei mentre raccontava le sue storie ai passanti e, pur senza capirci molto, era affascinata dalla sua voce e dal suo modo di gesticolare parlando.
Ruriko conosceva tutti i locali più strani e tutti i teatri. Spesso si introducevano di nascosto in una sala cinematografica per veder proiettare quelle immagini in bianco e nero che sembravano uscite da un mondo inesistente, e quegli uomini e donne che si muovevano in maniera strana muovendo la bocca senza emettere suoni. Chizu fissava lo schermo senza capire, e guardava il pubblico ridere, divertirsi e battere le mani ad occhi spalancati, come davanti a un mistero di cui non afferrava il senso.
Un giorno di mercato, un uomo cominciò a seguirle e, quando furono giunte nei pressi di un vicolo cieco, mise una mano sulla spalla di Ruriko, per farla fermare. La ragazzina scambiò qualche parola con l’uomo, poi disse a Chizu: - Aspetta qui.
-Dove vai? – chiese la bimba, che aveva paura di restare da sola tra quella folla.
-Non muoverti di qui, torno tra poco – disse Ruriko con la sua voce musicale, e sparì nel vicolo insieme a quell’uomo.
Rimasta sola, Chizu cominciò girovagare, finchè giunse accanto al recinto di un tempio, dove vide una bellissima signora. Indossava un finissimo kimono di seta ricamata, aveva i capelli ben acconciati e il volto, dipinto di bianco, atteggiato ad un’espressione dolce e statica, come una maschera. Reggeva un grazioso ombrellino e aveva il capo reclinato da una parte, con un dolce sorriso rivolto proprio a lei.
-E tu chi sei, bella bimba? Ti sei persa? – le disse la signora.
-Sono Chizu. Tu chi sei?
La signora rise, come ridono i campanelli d’argento.
-Sono una geisha – rispose.
Chizu sgranò gli occhi. – E che vuol dire? – volle sapere. Quella parola le ricordava qualcosa, come una strana malinconia.
-Sono un’artista – spiegò la signora, con il suo dolce sorriso.
-Anche io voglio essere un’artista – replicò la bimba, convinta. La signora rise ancora del suo riso d’argento, e di lì a poco si allontanò con un uomo, che le si era accostato vicino al recinto del tempio.
Chizu guardava ancora la bella signora allontanarsi, quando Ruriko la raggiunse di corsa.
-Sei qui! Ti avevo detto di non allontanarti – fece la ragazzina, ansando.
-Ruriko, anche tu sei una geisha? – domandò seria seria la bambina, ricordando di averla vista allontanarsi con un uomo.
-Certo che no, o non starei dai Takebata – fece Ruriko, arrossendo in modo strano. – Comunque, guarda adesso cos’ho! – trionfante, le porse una mela candita, addentandone a sua volta un’altra che aveva in mano.
-Anche io voglio essere una geisha – affermò Chizu, masticando.
Ruriko smise subito di mangiare e la guardò tristemente.
-Non è bello andare con gli uomini quando non vuoi – mormorò. – Ma bisogna pur mangiare.
Chizu la guardò senza capire. Quella sera tornarono dai Takebata senza più dire una parola.
Continua...
capitolo successivoEdited by ~*Floriana*~ - 27/7/2010, 09:26