Capitolo nono.
Sono tornata in ufficio qualche giorno dopo.
Ho evitato il giovane supermanager come la peste, nonostante l’incontro in biblioteca non sia stato caratterizzato da particolari baruffe. So che anche Umibozu ha fatto i bagagli per tornare a Tokyo, ma non so se, quando e in che modalità ci reincontreremo.
In ufficio, per adesso, sono ancora accolta da Mitzuki. Credevo se ne fosse andata, lasciando la sua scrivania in balia temporanea di una stagista neolaureata o, comunque, in attesa che Ayakawa le subentrasse in via definitiva.
Invece, la mia solerte segretaria c’è e mi accoglie con un sorriso che non mi aspetto da lei e un caffè Blue Mountain il cui profumo mi ristora.
“Vado in ufficio.” Le dico ringraziandola con uno sguardo, il primo sereno dopo molti giorni di temperie emotiva.
Lo stato di grazia, però, non è destinato a durare a lungo, ché, non appena apro l’uscio e sento i piedi affondare nella moquette che tanto amo, vedo ciò che non mi aspetto e sono assalita da una sorta di conato di vomito.
“Che cosa significa?” domando. Di fianco a me, però, non c’è nessuno.
Mi giro verso la scrivania di Mitzuki, ma neppure lei c’è. Non una stagista. Non un’anima che possa spiegarmi cosa significhi quel vaso e i fiori in esso contenuti, soprattutto.
Un mazzo di rose scarlatte.
Dopo ventitré anni, ancora una volta, qualcuno mi ha fatto dono di quei fiori.
“Mitzuki!” urlo con quanto fiato ho in gola “Chi? Chi si è permesso?...”
Mi manca l’aria.
Annaspo letteralmente, ma nessuno viene in mio soccorso. Chiudo la porta dietro di me con le spalle, quindi scivolo lungo il legno lucido per sedermi a terra.
Respiro appena.
È di nuovo la stessa sensazione di quel giorno, quando rischiavo di annegare.
Inizio a piangere forte, a piangere forsennatamente.
Che cosa significa tutto questo?
Chi vuole farmi del male.
Mi tiro su, nel silenzio totale interrotto solo dai miei singhiozzi, quindi mi dirigo alla scrivania per visionare il mazzo scarlatto: a occhio e croce, si tratta di una trentina di rose. È un bouquet sontuoso, che non avevo più ricevuto da tempo immemore. Ho i sudori freddi, mentre, col massimo della delicatezza, scosto alcuni steli come a cercare un indizio che mi indichi chi possa essere il donatore.
Ma come parlo?
Donatore di rose?
Io vaneggio, davvero.
Masumi è morto. È morto.
Ricomincio a piangere senza posa.
E’ in quel momento che, finalmente, un’anima vivente fa il suo ingresso:
“Che cosa succede? Signorina Kitajima…”
“Se ne vada!” urlo “Non voglio vederla! Scommetto che riderà nel vedermi in questo stato…”
“Ridere, signorina?...” chiede Umibozu spiazzato “Più che altro, mi addolora. Non immaginavo una reazione così forte davanti ad un presente.”
“Lei non può capire!” dico “Chiunque abbia fatto questo sa perfettamente qual è il significato.”
“Oh, certamente.” Afferma abbassando il capo “Ho capito a cosa si riferisce.”
“Questi” sottolineo nonostante il mio nuovo collaboratore sappia a cosa mi riferisco “sono gli unici fiori che Masumi Hayami mi abbia regalato nei sette anni in cui, come ombra scarlatta, ha seguito la mia carriera. Sono gli stessi fiori che stava portando a Izu la sera dell’incidente.”
Nascondo il viso tra le mani e mi sento inconsolabile. Finalmente, l’odioso individuo ha perso la favella. Tace, come è giusto che sia, perché lui non può capire.
“Non pianga…” mormora col tono piano e partecipe.
Sento la sua mano sulla mia spalla, ma non osa avvicinarsi oltre. Percepisce che l’aggredirei sicuramente. Non è lui che voglio accanto. Voglio Masumi e, soprattutto, desidero che quel mazzo provenga da lui e da nessun altro.
“E’ stato lei, forse?” chiedo con un fil di voce, gli occhi pieni di lacrime “Perché mi fa questo?”
Umibozu scuote il capo:
“Non…vorrei mai farle del male, mi creda.”
“Mi lasci sola.” Ordino perentoria “Non ho bisogno di lei. Non ho bisogno di nessuno.”
Due ore dopo, riacquisto a fatica il controllo di me stessa. Sciacquo il viso al lavabo del bagno annesso all’ufficio e lascio la stanza: Umibozu è lì, seduto alla scrivania che fu di Mitzuki, col volto teso e preoccupato.
Non lo vedo così pallido dal giorno in cui mi ha salvato la vita, laggiù alla scogliera.
Non è solo un fatto psicologico. È come se il suo cuore stesse per cedere d’improvviso: per lo meno, a me pare di percepire così.
Ma perché mai, poi, dovrei preoccuparmi delle sorti di questo ragazzino, quando io ho il mio carico per nulla indifferente sulle spalle e, adesso, anche la storia delle rose scarlatte?
Torno ad ispezionare il mazzo di fiori e trovo quel che spero si riveli un prezioso indizio: è un biglietto ed è del medesimo colore. Un cartoncino pregiato, con delle lettere sovrimpresse.
A colei che splende più di Merope e Sterope.
Non c’è firma.
Il desiderio di emulazione giunge fino a un certo punto – e per fortuna! – se chi compie determinati gesti non ha avuto modo di leggere cose che conservo gelosamente.
Cose che solo io e Masumi possiamo aver visto.
E’ ovvio che non possa trattarsi di Masumi, poi. La follia d’amore non è tale da sconvolgermi la mente. Non c’è possibilità di fraintendimento e il mio nuovo supermanager, là fuori, si è dichiarato estraneo alla faccenda.
Ci penso su: in effetti, non ha propriamente detto di non aver mandato il mazzo di rose scarlatte. Ha, inoltre, aggiunto che non vorrebbe mai farmi del male o qualcosa del genere.
Qualche minuto e torno fuori dal mio ufficio. Umibozu è appena uscito e decido di frugare tra le sue carte, quelle che ha sparso sulla scrivania.
Non so cosa cerco. Non so più niente.
Il ragazzo scrive tutto a mano. Pur essendo giovane, quindi, è uno <alla vecchia maniera>.
Usa l’i-pad esclusivamente per le questioni d’affari: lo schermo è acceso, c’è un planning trimestrale con i prossimi impegni del nuovo anno. Mi interessano di più le sue carte, però, e ne ha lasciate incustodite un bel po’. Ad una immediata lettura, comprendo che si tratta di appunti sulla famigerata <scoperta> e quel che leggo ha il potere di stravolgermi abbastanza, ché trasuda una sensualità mai recepita sul testo originale.
È descritto l’incontro d’amore tra le anime gemelle, Akoya ed Isshin, per la precisione il loro amplesso. Anime che, nude, si toccano e, solo con lo sfiorarsi di una mano, realizzano l’estasi. Tutt’intorno, sono galassie, potenze, turbini d’aria. Si percepisce la felicità dell’universo tutto, mentre gli amanti, finalmente, si stringono l’un l’altra.
Yin e Yang si uniscono: diventano tutt’uno, pur permanendo diversi.
Complementari, ma non uguali.
Non avevo mai letto nulla del genere. Il ragazzino ci sa fare con la letteratura: ha saputo ricavare un testo teatrale da quella che era una semplice bozza del Maestro Oozachi.
Dunque, è questo il suo progetto. Non dare alle stampe un libro di critica, ma produrre uno spettacolo: uno spettacolo che ha per soggetto la dèa, ma non è più la dèa di Chigusa Tsukikage.
È la dèa di qualcun altro.
Mi soffermo ancora sull’immagine dei due amanti e, facendo scivolare i fogli, scopro un disegno: l’abbozzo di due corpi che si sfiorano.
Sento, in quel momento, una sorta di vuoto all’altezza dello stomaco: un vuoto che si trasforma in una morsa.
“E’ mai possibile?” mi dico “Questa immagine…”
Mi rammentano, come una sorta di fortunata istantanea, ciò che io e Masumi, una volta terminato lo spettacolo di prova della sensei, nella Valle dei Susini, incarnammo.
“Sta meglio?”
La voce di Umibozu mi coglie alla sprovvista.
“Manager, studente brillante di drammaturgia, scopritore di manoscritti e, ora, anche autore teatrale. Sono veramente stupefatta, ragazzino: la sua versatilità fa paura.”
“Sono solo <appunti>.” Si affretta a dire, mettendo le mani sui fogli che avevo letto di nascosto.
All’inizio, avvicinandomi alla scrivania, avevo provato vergogna, come se fossi in procinto di compiere qualcosa di illecito. Poi, dopo essere stata scoperta, ho cambiato atteggiamento: in fondo, sto legittimamente cercando di capire che cosa Hijiri, di comune accordo con Mitzuki e questo individuo, sta cercando di farmi fare.
Decido per andarmene, tanto so che non mi risponderà.
“Potrebbero diventare un copione, sì.” Si affretta a dire Umibozu.
Io lo guardo biecamente.
“Ci sono immagini ben strane.” Ridacchio “Non particolarmente consone per un teatro tradizionale qual è il nostro.”
“Abbiamo maschere in abbondanza anche per questo.” Si trincera.
“Maschere che prevedano il sesso?” domando ironica.
“Il sesso è un dono degli dèi e noi possiamo sempre…reinterpretarlo.”
Mi aspetto che completi il discorso: le cose stanno facendosi interessanti.
“Quell’immagine…” lo prevengo ancora ignara “dei due amanti nudi che si toccano è nel manoscritto che ha trovato?...”
“Perché me lo chiede?”
E mi fissa sospettoso.
Per lo meno, io credo sia così.
“L’attira perché è una scena abbastanza <hard> o…?” ride.
“Andiamo, sa benissimo che non ho un’età per cui le scene <hard> possano suscitare morbosa curiosità!” sbotto a mia volta.
“Eppure, ne avrebbe bisogno.” Sogghigna “Autoconvincersi di essere una vecchia non può far bene ad una persona che svolge la sua professione. Dovrebbe essere baciata e da uno che se ne intende, anche…”
“Sentiamo, Rett Butler, quale altro film citerà, prossimamente?”
Non mi considera neppure e torna a sedere.
“Se tutto va bene, questo scritto sarà completato a metà del mese e, agli dèi piacendo, sarà messo in scena il 2 di gennaio dell’anno venturo, tra otto mesi esatti.”
“Sta scherzando, vero?” dico sconcertata.
Non può parlare sul serio.
Chi si crede di essere?
“Io sono il suo manager, signorina. E quello che ha finito di visionare poc’anzi sul mio i-pad è il calendario dei suoi impegni futuri…”
E’ troppo.
Gli do le spalle: non posso credere che un’attrice del mio calibro non possa più scegliere quali ruoli rivestire. Non posso credere che il primo arrivato mi ingiunga ciò che debbo o non debbo fare. È inaudito.
“Ha paura, forse?” mi domanda sfidandomi palesemente “Un ruolo nuovo, una reinterpretazione potrebbero scalfire la sua fama già consolidata. Non vuole rischiare, è così?”
“Quel che dice non mi tocca.” Dico ferma “Anche perché, se davvero mi conoscesse, saprebbe che non mi tiro indietro di fronte a nulla.”
“E’ così.” Sottoscrive “Almeno, è così che ho sempre pensato che fosse.”